Che sventura tremenda gli era capitata! Perché proprio a lui? Perché, perché, perché, perché?
Epepe di Ferenc Karinthy è stato il primo titolo a venirmi in mente quando mi è stato chiesto cosa avrei voluto comprare con gli sconti Adelphi.
Conosciuto e letto apparentemente da tutti, ha trovato tantissimi apprezzamenti da lettori molto diversi tra loro, per una volta questo aspetto mi ha attirata e, sebbene non sapessi assolutamente di cosa parlasse, l'ho messo al primo posto della mia personale lista desideri Adelphi e, appena l'ho ricevuto in regalo, l'ho letto.
In realtà conoscere in precedenza l'idea del romanzo mi avrebbe indotto a bramarlo ancora di più. Un uomo, linguista di professione, si ritrova in un Paese del tutto sconosciuto dove si parla una lingua del tutto differente da quelle da lui conosciute (che sono tantissime!) e dove sembra impossibile comunicare in alcun modo. La trama è intrigante perché riesce ad unire due fattori che, personalmente, non ho mai trovato nel medesimo libro: l'isolamento unito al sovraffollamento.
L'ambientazione, infatti, è il vero motivo per cui l'idea, già buona da sola, riesce a colpire il lettore anche a livello visivo, affascinandolo definitivamente. Il Paese narrato è colmo di persone, gente che va e viene sulle strade, negli edifici e vive perennemente in coda, per fare qualsiasi cosa. L'autore riesce a descrivere le file interminabili, gli spintoni, l'incapacità di vedere cosa c'è dopo tutta la folla di gente e gli atteggiamenti delle persone in modo vivido, parola di cui spesso io stessa abuso ma che, in questo caso, rende alla perfezione. Si ha la sensazione di vivere ogni scena in prima persona e si riesce ad avvertire la fatica del barcamenarsi tra tutta quella gente, la necessità di fare forza a propria volta per aprirsi un passaggio.
L'importante era non perdere la testa, così solo com'era, non arrendersi al disordine, alla massa caotica. In certi momenti era assalito dalla paura che la sua mente abbandonasse quella lotta disperata e sprofondasse nella babele che la circondava, o in una malinconia grigiastra e incerta.
Ferenc Karinthy non si sofferma eccessivamente sulla psicologia del protagonista. Questa si evince facilmente dai suoi pensieri e dalle sue azioni, ma non è evidenziata ulteriormente. Per questo motivo la scelta di quanto entrare in empatia con quanto raccontato viene lasciata al lettore. Se l'ambientazione vi colpirà sarà l'aspetto che vi farà provare le maggiori sensazioni.
Da non sottovalutare per comprendere il valore dell'opera è anche la conoscenza dell'autore al riguardo dell'argomento che funge da isolatore; il linguaggio.
Il suo protagonista è un esperto di lingue proprio come lui ed è proprio la comunicazione (o più che altro l'incapacità di comunicare) a fare da perno della storia. All'interno del testo, infatti, oltre che a tentativi decisamente più pratici, attenti e completi di ciò che un uomo comune e ignorante in materia potrebbe fare, troverete anche tantissime informazioni sulle lingue, antiche e moderne, e sui diversi modi per classificarle e comprenderle.
Per comprendere la natura di un sistema di scrittura, un buon punto di partenza può essere il numero dei segni impiegati. Ce ne sono moltissimi nei sistemi che fissano parole intere e concetti, come nel cinese, per esempio, dove si dice che superino i cinquantamila.
Come dice anche Emmanuel Carrère nella sua prefazione (che vi consiglio di leggere solamente dopo aver letto il romanzo), in quest'opera non capita mai di pensare che il personaggio sia in difetto e che non faccia qualche tentativo che, invece, a noi parrebbe ovvio. Lui, anzi, ha idee e capacità superiori alle nostre e le mette a frutto con intraprendenza e grande sforzo. Il tutto, perciò, viene avvertito come qualcosa di altamente credibile.
Ci sentiamo tutti a disagio quando i personaggi di un romanzo si comportano come degli idioti, pensiamo che al loro posto faremmo meglio, ma non possiamo pensare niente del genere riguardo a Budai: sfidato sul suo terreno, ha più strumenti ed è più abile della stragrande maggioranza di noi.
Per quanto sia difficile stancarsi, dato l'esiguo numero di pagine e la grande abilità descrittiva dello scrittore, il lettore potrà avvertire un rallentamento del ritmo di lettura nella parte centrale perché lo svolgimento vedrà il ripetersi di una serie di tentativi che differiranno nella modalità e nell'intensità del tentativo ma che continueranno a riproporre il medesimo concetto.
Nonostante questo si noterà un'evoluzione, quasi sotterranea, del personaggio che si estrinsecherà in un finale, che come sempre non anticipo, imprevedibile. Se per tutta l'opera riusciamo a seguire il protagonista e a comprenderne (anche se non a condividerne) ogni scelta, alla fine lui ci stupirà totalmente. Forse questa conclusione non sarà tra le preferite dei lettori perché presenta un elemento che, solitamente, o si ama o si odia. Personalmente l'ho apprezzato, forse perché penso che l'unica altra chiosa possibile sarebbe stata eccessivamente facile da indovinare.
In conclusione, Epepe è un romanzo che poteva essere scritto in questo modo unicamente da Ferenc Karinthy, grazie alle sue conoscenze e al suo background. Questo si nota e dona un'aura speciale al testo, che mi ha colpita per idea e ambientazione ma che nella seconda metà ha poco da aggiungere rispetto al contenuto, praticamente perfetto, della prima parte.
Lo consiglio perché è un libro che si distingue, sia nell'idea che nel modo in cui essa è portata avanti. Un ottimo libro, curato nel dettaglio da Adelphi. Interessante anche la prefazione di Carrère che ci dice la sua opinione e ci fa scoprire qualcosa in più sulla bibliografia di Karinthy.