Figlio di Dio di Cormac McCarthy è il terzo romanzo che leggo di questo autore e, ancora una volta, mi rendo conto della sua capacità di mutare, non rimanendo mai totalmente uguale. Forse le differenze riscontrate dipendono anche dal fatto che, mentre questo è il terzo libro scritto e pubblicato dallo scrittore, gli altri due che ho letto, La strada e Non è un Paese per vecchi, sono stati pubblicati più di trent'anni dopo. Sicuramente leggerò presto altre sue opere e appurerò se quanto appena detto troverà ulteriore riscontro.
Ciò che, di McCarthy, rimane uguale sono i dialoghi. Laconici, con segni di interpunzione quasi inesistenti, spesso racchiudono un enorme significato in poche, brevi parole. Non a caso quando vengono effettuate trasposizioni cinematografiche dei suoi romanzi questo elemento viene salvaguardato il più possibile: nella loro semplicità hanno un effetto incredibile.
Altra capacità che ritengo innata dell'autore (almeno con le mie conoscenze odierne) è la sua capacità di rendere l'atmosfera. Poco importa che stia parlando di tristezza, schifo, felicità, genuinità, malizia, riesce a farci percepire esattamente ciò che desidera, apparentemente senza alcuno sforzo.
In questo romanzo ho, invece, trovato uno stile non completamente uguale a quello dei due volumi letti precedentemente. L'essenzialità che spesso lo contraddistingue lascia qui più ampio spazio alla parola. L'autore si sofferma prevalentemente sull'ambientazione.
Quest'ultima è ottimamente resa nonostante non sia geograficamente e temporalmente indicata, cosa che succede, del resto, in tutti gli altri libri letti. McCarthy, infatti, non spiega bene dove e quando si svolge la vicenda ma, in compenso, descrive talmente bene i luoghi che popolano la storia, da proiettarli vividamente nella mente del lettore. Le descrizioni in questo libro sono spesso forti, in linea con la durezza che ci si può aspettare in un'opera di questo autore. Forse è più la loro quantità che la loro qualità a colpire maggiormente.
Spinse da parte i vecchi giornali, spazzò via lo sterco vecchio di volpe e di opossum e spazzò via anche pezzetti di argilla color mattone caduti dal soffitto d'assi coperti di neri gusci di larve.
Ciò che mi ha lasciata perplessa è la struttura del libro. Da ignorante, (perché se non si capisce un grande autore è legittimo pensare di essere noi lettori in torto) se l'avessi dovuto giudicare come se fosse stato un manoscritto da approvare, avrei detto "qui c'è qualcosina da mettere a posto". Non è fatta male o incoerente ma non è totalmente chiara, soprattutto all'inizio. Si capisce, infatti, la vicenda, ma si è un po' confusi dal narratore che rimane sempre lo stesso, ma parlando con onniscienza totalmente diversa da pagina a pagina (prima sembra un compaesano che parla a noi dicendo quello che sa, poi sembra una testimonianza a terzi, infine racconta cose che soltanto un narratore onnisciente ed esterno potrebbe vedere). Ho sperato per tutto il libro che a tutto questo venisse data una spiegazione ma così non è e, perciò, non sono riuscita a gradire completamente questo aspetto (che è presente in parte anche negli altri due lavori ma in maniera più credibile e accettabile).
Io mi sentivo, mi sentivo... è difficile da spiegare. Ci sentivamo da cani, ecco.
La trama è terribile, veramente molto difficile da digerire, sicuramente se mi avessero detto "leggi questo stupendo libro che parla di" io non l'avrei degnato nemmeno di uno sguardo, giudicando anche l'interlocutore non molto sano di mente. Per non farvi spoiler vi posso dire solamente che il protagonista del libro, Lester Ballard, è un uomo che vive al di fuori delle leggi degli uomini e che fa cose di cui non tutti avrete desiderio di leggere. Io amo le storie di sangue, in fondo sono cresciuta con Stephen King, non disdegno nemmeno i romanzi che presentano violenza, se se ne comprende il messaggio, ma qui l'autore dà l'impressione avercela voluta mostrare solo per il gusto di farlo e, anche se penso che l'intento di McCarthy fosse proprio quello di colpirci per questo, devo dire la verità, non sono riuscita ad apprezzarlo del tutto.
Il protagonista è strano e malevolo e ragiona di conseguenza. Al suo interno si è annidato qualcosa che gli dona solo il peggio dell'istinto animale, rendendolo perciò quanto di peggio possibile: un uomo che non segue le regole né delle fiere né degli esseri umani.
Qualunque cosa fosse la voce che poi gli parlò, non era un demone ma un vecchio io perduto che ancora tornava di tanto in tanto in nome della ragione stessa, una mano che lo aiutava a ritirarsi dall'oralo della furia disastrosa in cui stava per precipitare.
Gli altri personaggi svolgono un ruolo di contorno: non sono importanti e non vengono consapevolmente interiorizzati.
L'incipit mostra ciò che ho detto sullo stile diverso da quello a cui ero abituata: l'inizio del libro è, infatti, composto da una frase lunga persino per i normali standard, per quello che conoscevo di McCarthy è ancora più incredibile. Per quanto si tratti di un'immagine vivida, penso che l'autore ci abbia mostrato di poter fare molto di meglio.
Il finale, senza spoiler, mi ha lasciata indifferente. Quello che il libro aveva da dire (sebbene non fossi sicura di volerlo ascoltare) me l'ha detto ben prima, la fine è stata più una chiusura del cerchio che qualcosa di utile per comprendere la storia.
Nei libri Einaudi parlare della cura è spesso inutile, perché chiunque li abbia letti sa che gli standard di questo editore sono molto elevati (seppure a volte discutibili a livelli di grandezza del carattere, specie nei classici). In questo libro, però, ho trovato un refuso, evento talmente raro che mi sembra rilevante segnalarlo, per quanto si tratti semplicemente dell'eccezione che conferma la regola.
Infine, il ritmo. Io lo giudicherei medio per due motivi. Il primo è che trovo che la struttura possa risultare poco chiara anche ad altri lettori, inducendoli come me ad avere difficoltà ad orientarsi bene e, quindi, pregiudicandone in parte la scorrevolezza. In secondo luogo penso che, specialmente chi, come me, di McCarthy ha già letto altro, si potrebbe trovare spiazzato dalla poca sintesi (parlare di prolissità sarebbe esagerato) di alcune parti del testo.
In conclusione, McCarthy ha delle doti che, anche in questo romanzo, risaltano rendendo le sue opere uniche, inimitabili e di piacevole lettura. Figlio di Dio, però, non presenta altre qualità che ho riscontrato dei due romanzi precedentemente letti.
Non penso che la lettura di questo libro sia essenziale per gli amanti del bello scrivere e sono certa che alcuni di voi, anche se amanti dello stile crudo dell'autore, potranno avere poco piacere ad affrontare questa determinata storia. Lo consiglio, perciò, solo a coloro che desiderano leggere tutto dell'autore o, ancora, che non abbiano letto altro di suo e che, dunque, non abbiano termini di paragone importanti come quelli che avevo io.