Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m'avveleni.
Merricat, disse Connie, non è ora di dormire?
In eterno, al cimitero, sottoterra giù a marcire!
Abbiamo sempre vissuto nel castello di Shirley Jackson è il secondo libro dell'autrice che mi sono accinta a leggere.
Nonostante dopo Paranoia i miei dubbi si fossero affievoliti, temevo ancora, approcciandomi per la prima volta ad un'opera di narrativa vera e propria, di accorgermi di non apprezzarla e di rimanerne delusa.
Con il senno di poi mi accorgo di quanto la mia scelta di cominciare proprio con questo romanzo sia stata coraggiosa: è un libro che può facilmente non essere apprezzato. Fortunatamente, però, sono riuscita ad entrare nell'ottica della storia e del suo perché e, questo, forse è dovuto proprio al fatto che io abbia letto prima dei suoi scritti autobiografici e sia così riuscita ad entrare maggiormente in connessione con la sua mentalità.
Il motivo principale per cui quest'opera potrebbe non piacere a tutti è prevalentemente legata al suo svolgimento.
La trama iniziale è molto intrigante; due sorelle e loro zio vivono in una grande casa, quasi del tutto esiliati dal resto del mondo. Sei anni prima i genitori delle ragazze e la moglie dello zio sono morti, in circostanze ancora non ben chiarite.
Il lettore brama scoprire qualcosa di più del passato piuttosto che del presente e Jackson elargisce informazioni molto cautamente.
Se all'inizio del libro questo aumenta la suspense e appare accettabile anche ai lettori meno pazienti, a lungo andare questo stillicidio potrebbe annoiarne alcuni.
Lo stesso si può dire per il finale. Come spesso accade anche a me; si potrebbe arrivare alla conclusione del romanzo rimanendone delusi.
Le informazioni che vengono date su ciò che è successo precedentemente a ciò che abbiamo letto sono sufficienti ma parziali, incomplete.
Spesso questo aspetto rovina la lettura di un libro, a me per prima.
Perché allora vedete valutato questo libro con uno dei voti più alti che abbia dato quest'anno? Le motivazioni sono due.
La motivazione numero uno è quella più oggettiva: la differenza la fa come si legge il libro.
Perché Shirley Jackson con Abbiamo sempre vissuto nel castello ci porta indietro al romanzo gotico del 1700, dove ciò che le stiamo richiedendo non era minimamente preso in considerazione, visto che ad importare era tutt'altro.
Non solo sotto quest'ottica l'autrice non pecca di nessuna carenza ma, anzi, è fin troppo benevola, perché noi, alla fine, cosa è successo nel passato dei nostri protagonisti lo sappiamo eccome e, questo, non era affatto obbligatorio.
Del resto, anche il più fanatico della trama si troverà costretto ad ammettere che ciò che manca non è relativo al presente di cui leggiamo, ma sempre a qualcosa che funge da flashback e che, semmai, avrebbe dovuto far parte di un libro antecedente.
Ovviamente questa tesi ha due grandi ed evidenti limiti.
Prima di tutto, non si può dire ad un lettore come leggere un libro. O gli si infarcisce la testa prima della lettura di pregiudizi al riguardo, inficiandone completamente la spontaneità, oppure lo si lascia andare libero (come dovrebbero essere tutte le letture non imposte) e si dovranno accettare poi le sue conclusioni.
Non c'è un modo giusto di giudicare un libro (a meno che non si sostengano inesattezze, ovviamente) e chi lo leggerà e non se ne troverà soddisfatto perché sente mancare qualcosa, avrà non solo diritto di farlo, ma anche la ragione dalla sua parte.
Secondo limite è che la trama del presente, per quanto ben spiegata e non eccessivamente lacunosa, non è il perno della narrazione e, dunque, non basta a compensare le manchevolezze della trama del passato.
A tutti i lettori interesserà molto di più scoprire come si è arrivati a quel punto, piuttosto che leggere cosa sta succedendo ora, è un dato di fatto.
La seconda motivazione è relativa al gusto personale.
Può capitare di entrare spontaneamente in totale sintonia con l'autrice e di capire esattamente ogni punto e terminare la lettura sentendola intera e perfetta così com'è, non sentendo la mancanza di spiegazioni aggiuntive che, anzi, avrebbero rovinato la poesia. Questo è ciò che è capitato a me e che, penso, possa succedere anche ad altri.
Inoltre, sebbene questo non sia vero nell'horror "moderno", questa ineffabilità e difficoltà di ricostruire un quadro generale dettagliato è ciò che, ai tempi in cui questo genere non era commercializzato, ciò che contraddistingueva il vero e puro orrore.
Vi fa più paura qualcosa che comprendete pienamente in ogni suo lato, o qualcosa di oscuro e sfuggevole?
Passiamo ora agli altri elementi del libro, che cercherò di trattare sinteticamente per non appesantire ulteriormente la recensione.
Il ritmo di lettura dipenderà direttamente dalla vostra sintonia con la storia. A parte che nella conclusione, dove le vicende narrate sono più veloci, non si può affermare che vi sia una dinamica rapida delle vicende.
D'altra parte Shirley Jackson non è affatto prolissa e tratta per il tempo e le parole necessarie ogni argomento, anzi, sono certa che molti lettori avrebbero gradito che si dilungasse maggiormente su alcune questioni.
L'atmosfera di mistero è presente per tutte la storia. Si percepisce chiaramente come la vicenda sia circondata da un'aura surreale, che non ci fa mai fidare di nulla di ciò che viene asserito. Siamo pronti a leggere di tutto e anche il suo contrario, timorosi di scoprire che ciò che ci verrà detto non possa coincidere con ciò a cui siamo pronti a credere (e l'autrice poi ci fregherà, come vedrete leggendo il libro).
Questo elemento si lega a doppio filo alla poca comparsa di spiegazioni. Chi rischierà di annoiarsi scoprendo poche cose sul passato della famiglia, tenderà a dare meno attenzione al presente e a godersi meno il viaggio, come si suol dire.
Elemento fondamentale per comprendere il valore del testo è lo stile di Shirley Jackson. Abbinato, certamente, ad una grande cura della traduzione.
Di rado riesco a riscontrare in maniera credibile i suoi tre aspetti principali raccolti in una medesima penna.
- Dicotomia tra le parole.
Le parole che utilizza sono ricercate fino all'ossessione. Qui non si tratta solamente di conoscerle e sfruttarle al meglio; ogni singola scelta riesce a trasmettere un'emozione che, abbinata alle altre che l'accompagnano in una frase, riesce a creare quell'effetto grottesco che, da sempre, attira e allontana i lettori al contempo.
- Dicotomia tra ciò che fanno e ciò che avverti.
Descrive ogni singolo gesto fatto dai personaggi dandoti l'impressione di stare dicendo troppo poco. Normalmente le descrizioni minuziose vengono considerate pesanti, qui accade il contrario.
- Dicotomia tra il tempo che passa e quello che vorresti.
I salti temporali non vengono introdotti e ti disorientano perché accadono sempre nel punto giusto; quando finalmente iniziavi a capirci qualcosa.
La scrittura di quest'autrice è ammaliante, elegante, ammiccante, disturbante ed intrigante. Stregonesca.
L'ambientazione è descritta precisamente. Vediamo tutto ciò che ci viene descritto, sin nel dettaglio. Non ci viene raccontato tutto ciò che è possibile menzionare, ma ciò che importa si imprime chiaramente nella mente del lettore.
In conclusione, Abbiamo sempre vissuto nel castello di Shirley Jackson è ben lungi dall'essere il romanzo perfetto. Come per tutte le cose speciali ed uniche, è più facile fraintenderlo che accoglierlo.
Io penso che l'autrice abbia consapevolmente scritto qualcosa che, per molte sue caratteristiche (le dicotomie di cui vi parlavo, su tutto) potesse non convincere i lettori del suo tempo e, di conseguenza, di quelli successivi.
Credo che sia la prima volta in assoluto in cui qualcosa di così azzardato riesce, in letteratura, a convincermi in questo modo.
Detto questo, pur sapendo che a molti di voi potrà non piacere, o non dare niente di che, io non posso che consigliarvelo.
E se anche a solo uno di voi, darà lo stesso che ha dato a me, mi basterà.