Per ironia della sorte quella stessa Tabitha Winshaw, oggi ottantunenne e con non più facoltà mentali di quelle esibite negli ultimi quaranticinque anni, è la patrocinatrice e la finanziatrice del libro che tu, mio caro lettore, tieni ora tra le mani.
Non avrebbe fatto un passo fuori dalle mura dell'istituto per diciannove anni. Per tutto quel periodo di tempo provò solo raramente a comunicare con altri membri della famiglia, né manifestò alcun particolare interesse per averli in visita.
E lì rimase, saggiamente affidata alle cure di un équipe qualificata e scrupolosa sino al 16 settembre 1961, quando fu temporaneamente dimessa su richiesta del fratello Mortimer: una decisione che, per quanto presa per compassione, fu presto destinata a rivelarsi sfortunata.
Da qualche mese a quella parte s'era affastellata sul mio orizzonte mentale una manciata di compiti sgradevoli, torbidi e umilianti, che ora però parevano aver perso tutta la loro pesantezza e giacevano di fronte a me, privi di ogni minaccia, addirittura invitanti, come gradini di pietra che mi avrebbero condotto a un futuro più luminoso.
Più vedevo questi Winshaw sordidi e bugiardi com'erano, ladri e profittatori quali erano, meno mi piacevano, e più arduo diventava per me conservare il tono dello storico ufficiale. E meno riuscivo ad avvedere a fatti saldi e dimostrabili, più ero costretto a piegare il racconto all'immaginazione, rimpolpando eventi che conoscevo solo per grandi linee, facendo congetture sulle motivazioni psicologiche, inventando persino delle conversazioni.
Dopo quella serata non uscii, né parlai con qualcuno per due, forse per tre anni.
Il sabato mattina ripresi a lavorare sul manoscritto. Come sospettavo, la confusione era allarmante. C'erano parti che si leggevano come un racconto storico, mentre nelle pagine conclusive si avvertiva un tono di ostilità nei confronti della famiglia che non mancava di irritare.
Ci stanno riuscendo perché gente come me sa fin troppo bene che, anche qualora trovasse un nuovo Dostoevskij, non venderebbe metà delle copie che realizzerebbe una merdata qualsiasi scritta da un pirla qualsiasi che legge le previsioni del tempo alla televisione, televisione del cazzo!
Perché pensi che il libro sia diventato quello che è? Perché scriverne, cercare di raccontare la verità che li concerne, era il solo modo che mi impediva di volerli uccidere. Cosa che, per altro, qualcuno dovrebbe fare uno di questi giorni.
Sta per cominciare. Lo sento. Ci abbiamo davvero messo così tanto tempo per arrivarci?
È da una vita che lo sostengo: la qualità è quantificabile!
"Quindi, secondo te, i nomi sono importanti?"
"Solo alcuni. Alcune persone finiscono per assomigliare ai loro nomi, come i cani ai loro padroni. Non possono farne a meno."
"Infatti," disse. "Ho la pietà facile."
"Anche quando non è richiesta?"
"Ma nessuno la vuole veramente, no? Per quanto disperati di possa essere. È questo che si finisce per capire prima o poi."
Sentivo l'incombere di uno di quei momenti decisivi che ti cambiano la vita: una di quelle svolte in cui o afferri l'opportunità fugace che ti si presenta o la guardi inerme scivolare via dalle tue mani e ritornare nel nulla. Dunque sapevo, a parte il resto, che dovevo continuare a parlare, anche se non avevo più molto da dire.
"Non ci sono gelsomini qui vicini, o sbaglio?"
"Non credi, però, che sia tremendo, quando i tuoi amici scelgono dei compagni completamente sbagliati?"
Appollaiata quasi sulla cresta di un'altura vasta e impervia, disegnava ombre profonde e scure sui terreni sottostanti.
Lo vide solo per un attimo: un viso pallido, contratto e deforme, sormontato da un groviglio di capelli grigi, che fissava i nuovi arrivati con un'aria di lunatica malevolenza che bastò a gelarle il sangue nelle vene.
"Oh," disse lui e appoggiò la forchetta sul tavolo. "Non mi intendo di cucina," confessò rivolgendosi a tutta la compagnia.
"Conrad è americano," disse Hilary, come se questo spiegasse tutto.
"Lasci che la metta in guardia sulla mia famiglia," disse infine, "nel caso che non l'abbia già capito da sola. Sono il branco più abietto, spietato e rapace di bastardi pitocchi e di infide bisce che abbia mai strisciato sulla faccia della terra. E includo nel mucchio anche i miei figli."
Anche se non l'aveva mai veramente razionalizzata, una delle sue convinzioni più profonde era che una vita priva di effusioni fisiche quasi non valeva la pena di essere vissuta.
Vuole ricordarci che ciò che è inevitabile può anche essere spiritualmente intollerabile, che ciò che è giustificabile può essere atroce...
Era sempre così: sempre quelle due ultime frasi, il riassunto imparziale, l'ironica frecciata di chiusura, che costavano un dispendio eccessivo di tempo e fatica.
È il sogno di ogni autore, io credo. E dato che accade raramente, anche nella vita delle celebrità letterarie, si pensi quanto prezioso sembrasse a un giovane, ignoto scrittore come me, affamato di prove, quali che fossero, dell'incidenza della sua opera sulla coscienza del pubblico.
"Ma io stavo ridendo. Ridevo dentro di me, davvero. Io, quando leggo, rido ma non lo faccio vedere. È una cosa che tengo per me."
Forse era per questa che la vita dello scrittore mi era sempre sembrata così allettante: per il rifugio che offriva di fronte alla fatica dell'inserimento sociale, per la luminosa legittimazione conferita alla solitudine.
Forse c'è qualcosa di più intimo e segreto da scoprire nel volto di una persona addormentata che in un corpo nudo.
Adorava la menzogna di cui gli schermi erano latori: che il mondo fosse compreso dentro i quattro lati di un rettangolo e che lui, lo spettatore, fosse nella condizione di sedere e guardare, senza essere toccato, senza essere osservato.
"Il trucco è che le carognate bisogna non smettere di farle. Non dà alcun frutto far passare dei paragrafi scandalosi a livello legislativo e dare a tutti il tempo di rifletterci su. Bisogna darci dentro, di male in peggio, prima che la gente abbia la possibilità di capire che mazzata ha ricevuto. La coscienza inglese, sai, è fatta a suo modo: ha una capienza che arriva sì e no alla memoria... diciamo, di un personal computer molto primitivo. Può rammentare solo due o tre cose alla volta."
... sapere di essere parte attiva del processo che stava sottraendo la proprietà ai molti per concentrarla nelle mani di pochi lo colmava di un profondo e rassicurante senso di giustizia.
Accecato dai molti schermi che erano stati frapposti fra sé e il resto del mondo, egli non era più certo in una situazione che gli consentisse di vedere, neppure di sfuggita, la gente col cui danaro stava giocando d'azzardo.
Ho sempre associato la televisione alla malattia. Non la malattia dell'anima, come qualche commentatore sarebbe pronto a stigmatizzare, ma quella del corpo.
Per i pomeriggi, invece, era previsto un piccolo rituale, un rituale concepito, suppongo, per tenere a dovuta distanza paura e dolore: ed era allora che il televisore faceva la sua comparsa.
E invece, solo sei giorni dopo...
Chi ci crederebbe?
E invece, solo sei giorni dopo.
Non so se riuscirò a farmene una ragione.