Mi guardo intorno, qui al Sud, e vedo soltanto povertà, disperazione, disuguaglianza e infelicità. Amo il Sud dal profondo del cuore e anche se a dirlo sembra la cosa più smielata del mondo, mi viene da piangere ogni volta che lo vedo per quello che è e lo paragono alla mia idea di quello che potrebbe essere.
Un altro tamburo è il romanzo d'esordio di William Melvin Kelley, uscito nel 1962 negli USA e solo quest'anno in Italia, grazie a NN Editore che ci ha permesso di conoscere un volume che dovrebbe essere inserito tra i classici imprenscindibili da leggere.
La storia di Un altro tamburo è una simil ucronia: racconta cosa sarebbe successo se, tutta la popolazione di colore di uno stato immaginario del Sud (qui è inventato, ma potrebbe essere qualunque altro), avesse deciso di partire ed andarsene, senza dare alcuna spiegazione.
L'idea porta con sé un messaggio importante; tutti si ripetono che "non è niente" è che "tanto non li volevano", ma tutti riconoscono, sotto sotto, la verità: la popolazione, ora, è troppo ridotta e i commercianti sono destinati al fallimento e, inoltre, quali degli uomini bianchi rimasti occuperà i lavori, considerati poco dignitosi ma necessari, che svolgevano i neri?
Questo, però, non è l'unico messaggio che arriva: il libro ci esorta a fare, a compiere ciò che vorremmo senza frenarci perché "non si può, non si deve, chissà gli altri cosa ne penseranno". Tutti noi, anche se in piccolo, siamo legati da catene che ci paiono indissolubili e che, invece, possiamo spezzare e dobbiamo spezzare, se questo ci serve per essere realmente felici.
Chiunque, chiunque si può liberare dalle catene. Quel coraggio, per quanto sia nascosto in profondità, aspetta sempre di essere chiamato fuori. Basta solo usare le parole giuste, e la voce giusta per pronunciarle, e uscirà ruggendo come una tigre.
Oltre alla trama, originale ed interessante, a colpire è la struttura del testo. Infatti, ciò che succede ci è raccontato da diversissimi punti di vista: in terza persona, in prima, persino sotto forma di diario. Ciò che scopriamo non è legato esclusivamente al presente o al futuro, è anche il passato di molti di loro ad insegnarci qualcosa e a dare un significato ancora più profondo a ciò che succede.
Il cambio strutturale necessita anche di un cambio stilistico: le persone del Sud non parlano come quelle del Nord, quelli più acculturati non parlano come quelli meno. Martina Testa, la traduttrice del volume e grande nome italiano nel campo della traduzione (moltissimi dei più "grandi" sono stati tradotti da lei, e il suo nome è una garanzia di qualità), ci spiega nella Nota del Traduttore a fine volume (presente in tutti gli NN tradotti), le principali difficoltà in questo senso: le frasi idiomatiche e gergali da rendere in italiano e persino gli insulti razziali che, fortunatamente, non hanno la stessa varietà qui in Italia.
Mi è già capitato molte volte di leggere libri in cui autore e traduttore svolgessero un ottimo lavoro in questo senso, ma in questo testo l'ho trovato particolarmente efficace e ben riuscito; impossibile non notare le differenze.
È piuttosto interessante vedere come il razzismo, così radicato, induca anche coloro che non lo sono (specialmente il bambino della storia), ad utilizzare parole con una connotazione negativa, ma inconsapevolmente, solamente per abitudine e con nessuna velleità di fare del male.
Le parole più rilevanti o i pensieri, vengono scritti in corsivo nel testo.
«Ti spiego. Secondo me nessuna parola nasce come una parolaccia. È semplicemente una parola, e poi la gente le dà un significato. E magari tu non la usi con lo stesso significato che le danno tutti gli altri. Per esempio, se qualcuno a scuola ti dà della femminuccia, non significa che sia per forza brutto essere una femmina: è come dire che uno ha gli occhi grigi. Non significa che sia brutto avere gli occhi grigi. Ma se a uno di colore gli dai del negro, lui pensa che gli stai dicendo una cosa brutta, anche se magari tu non la intendevi in quel modo, capisci?»
La traduttrice racconta anche come il suo incontro con il testo di Kelley sia stato "la sensazione di abitare il suo tipo di mente preferita" e, effettivamente, anche se in una versione meno simbiotica, è ciò che prova anche il lettore. Per quanto nel testo vi siano personaggi anche discutibili e affermazioni inaccettabili (non solo per la questione razziale, ma anche per il rapporto uomo/donna e sulla violenza a queste ultime), non si avvertono forti sensazioni negative. L'atmosfera, perciò, è talvolta grave e sempre molto percettibile, ma non difficile da sostenere.
Lì per lì volevo raccontarle una balla. In fondo non fa mai piacere ammettere che sei finita in macchina con un ragazzo molesto, perché lo sanno tutti che in realtà in quella situazione ti ci sei messa tu.
Ciò che succede sembra ineluttabile e, anche se fa male, ne ricaviamo un insegnamento. Il finale colpisce ed è impossibile da dimenticare.
Nel volume è presenta anche una biografia di William Melvin Kelley, raccontato sia come persona che come lettore ed autore.
Diceva spesso che, non essendo molto bravo a leggere, in vita sua aveva finito solo due libri: l'Ulisse di Joyce e la Bibbia.
In conclusione, sono riuscita a trovare in questo testo un unico difetto: avrei voluto leggere altri cento, mille punti di vista, avrei voluto sapere ancora di più. Ma, come spesso accade in queste situazioni, sono consapevole che il libro che mi immagino di desiderare avrebbe avuto su di me un effetto completamente differente e, forse, avrebbe perso la magia con cui questo mi ha incantata.
Come dice anche Martina Testa all'interno del volume, questo libro è e merita di essere un classico e, aggiungo io, anche imprescindibile. Consigliato con veemenza.
La mia speranza, ovviamente, è quella di essere riuscita a trasferire al lettore italiano lo stesso senso di immediatezza, di orchestrazione fluida, che contribuisce a fare di Un altro tamburo una lettura trascinante e moderna: un gioiello della letteratura afroamericana da riscoprire e inserire definitivamente fra i classici.