Ciascun libro è un'immagine di solitudine, un oggetto concreto che si può prendere, riporre, aprire e chiudere, e le sue parole rappresentano molti mesi, se non anni, della solitudine di un individuo, sicché ad ogni parola che leggiamo in un libro potremmo dire che stiamo di fronte a una particella di quella solitudine.
Possiamo definire L'invenzione della solitudine di Paul Auster un'autobiografia parziale dell'autore.
La prima cosa da sapere al riguardo è che il testo è diviso in due parti. Questa struttura incide notevolmente sul giudizio e, per questo, le tratterò in due blocchi differenti, lasciando alla totalità solo ciò che condividono.
La prima parte è di sole 70 pagine e ci fa trovare un Paul Auster inedito.
Colpito dalla morte del padre, molto di più di quanto sembra rendersi inizialmente conto, lo scrittore decide di parlare del genitore e del loro rapporto.
La scrittura, però, per sua stessa ammissione, procede sempre più lentamente, provandolo molto. Non ritroviamo moltissimi degli aspetti tipici dello scrittore.
Lo stile è semplice, poco arzigogolato o di maniera ma pieno di significato. È senza dubbio più profondo di quanto siamo abituati a leggere e anche molto introspettivo e personale. In queste poche pagine abbiamo l'impressione di conoscere Paul, l'uomo, quello che avrebbe potuto scrivere (seppur molto meglio di una persona qualunque) ciò che sente il bisogno di raccontare.
Ciò che viene raccontato non ha una vera e propria trama, l'autore segue l'onda dei ricordi, raccontandoci frammenti di vita (legati principalmente al padre), che ora lo fanno riflettere e lo invitano a chiedersi se qualcosa sarebbe potuto essere diverso.
Pian piano sto iniziando a capire l'assurdità del compito che mi sono proposto. Ho l'impressione di dirigermi verso una meta, di sapere cosa volevo dire, ma più avanzo più cresce la certezza che la strada per giungere al mio scopo non esiste.
Per questo motivo il ritmo è molto veloce. Si legge con piacere ogni singola riga e si ha l'impressione di essere alla presenza delle confidenze più intime (quelle che spesso neghiamo e ci vengono negate) di un amico.
Nella seconda parte Auster decide di parlare di sé stesso in terza persona, facendo chiaramente comprendere di parlare della propria vita senza, però, volerlo ammettere immediatamente.
A. comprende che, mentre sta seduto in quella stanza scrive Il libro della memoria, sta parlando di sé come se fosse un altro per raccontare la propria storia. Deve assentarsi per essere presente. E così dice «A»., anche se intende «Io».
Nello stile ritroviamo alcuni degli aspetti tipicamente Austeriani che, però, non convinceranno come nei suoi romanzi.
Queste ultime 100 pagine, infatti, sembrano ricalcare la sua scrittura grazie a ipetizioni volute, citazioni letterarie e non, rimandi a tantissime opere, frasi sulla lettura e la sua importanza, ma tutto viene portato all'estremo, rendendo le sue tipiche divagazioni una vera e propria fuoriuscita dall'argomento principale, dando l'effetto di voler scappare dalle emozioni grazie al proprio (immenso) scibile.
Se, dunque, nei suoi libri generalmente considero questi aspetti la sua firma letteraria, in questa autobiografia li ho considerati degli elementi di troppo, volti a nascondere la propria verità anziché mostrarla senza inibizioni.
A causa di questi riferimenti (all'interno del libro troviamo ad esempio una parte di testo che potrebbe essere una recensione delle differenze tra il libro e il film di Pinocchio), il ritmo di lettura cala drasticamente. Il problema non credo che sia l'oggettività in sé, se questa seconda parte non fosse stata preceduta dalla prima e fosse stata presentata come qualcosa di differente, probabilmente sarebbe più semplice da apprezzare.
Paradossalmente in questa sezione è molto più semplice distinguere una trama ma essa è meno chiara e persino più confusa, a causa della sensazione dell'autore di dover scrivere con una sovrastruttura per potersi raccontare al meglio, decisione che non ho condiviso.
In entrambe le parti ho, invece, riscontrato:
Un'atmosfera del tutto unica. Per quanto Auster nelle sue opere non parli solamente di argomenti piacevoli o faceti (anzi), solitamente la sua scrittura è divertente, brillante e dà l'impressione di leggere qualcosa di semplice anche quando oggettivamente non lo è affatto.
In questo testo, invece, si nota una atmosfera totalmente differente, priva di ironia e a tratti anche pesante. Visto l'argomento questo non solo è legittimo, ma anche coerente, però è inevitabile notare la grande differenza con le sue opere di pura narrativa.
Un'utilità culturale e non. Prima di tutto, tra citazioni e riferimenti il lettore non potrà rischiare di chiudere il volume senza aver imparato qualcosa di nuovo. Questo succede in quasi tutti i romanzi dell'autore, perciò per quanto rimarchevole non stupisce.
Ciò che, invece, lo fa, è il constatare quanto di autobiografico sia presente nelle sue opere. Parlandoci della sua vita (sia direttamente che indirettamente) ci fa scoprire come molti aspetti presenti nei suoi libri derivino dalla sua storia o da quella dei suoi parenti. Questo aspetto, ovviamente, non sorprende in generale; è normale che uno scrittore utilizzi ciò che conosce e che ha esperito per scrivere i propri libri, ma per una lettore già affezionato alle sue opere sarà particolarmente interessante scoprire, tra le proprie letture, cosa deriva dalla realtà di Auster e cosa dalla sua immaginazione.
In conclusione, trovo la prima parte del volume imperdibile, emozionante e inedita. La seconda parte, invece, è interessante ma spesso verbosa e, abbinata alla parte iniziale del volume, può dare una sensazione di chiusura.
Per questo motivo lo consiglio solo a chi desidera davvero approcciarsi a questa opera per quello che è: un'autobiografia timida, quasi vergognosa, seppur interessante. È sicuramente più adatto a chi conosce già bene l'autore e vuole affrontare questa lettura per comprenderlo meglio e vedere in lui l'uomo, oltre che lo scrittore. La prima parte, però, è davvero bella e andrebbe letta da tutti.