Se la terra fosse piatta ed estesa all'infinito, mi chiedevo in silenzio, ci sarebbe stato un orizzonte?
Pattinando in Antartide è il primo memoir scritto da Jenny Diski, autrice che ho già letto, sempre grazie a NN Editore, con In gratitudine.
L'autrice britannica, già conosciuta per i suoi romanzi, decide in questo volume di raccontare in parallelo, due aspetti apparentemente molto diversi della sua vita che, in realtà sono correlati da un rapporto di causa/effetto: l'autrice pensa che l'uno abbia creato in lei il bisogno che vedremo estrinsecarsi nell'altro.
A capitoli alternati l'autrice ripercorrerà entrambe le esperienze e trarrà le proprie conclusioni, senza mai esplicitarle completamente. I due temi possono, dunque, essere interpretati anche come qualcosa di successo nello stesso periodo ma di scollegato.
Da una parte Jenny Diski ci racconta il suo rapporto con la madre naturale e, di conseguenza, anche con il padre. I suoi ricordi d'infanzia riaffiorano grazie alla figlia della scrittrice che decide autonomamente di scoprire qualcosa al riguardo dello stato attuale della nonna, di cui madre e figlia non sanno assolutamente nulla, nemmeno se sia ancora in vita o meno.
Coinvolta dalla figlia Jenny decide di indagare meglio, arrivando persino a parlare con gli ex vicini di casa della sua famiglia per scoprire come fosse vista dall'esterno e per poter ricostruire e comprendere meglio quei ricordi, che la mente infantile della Jennifer di un tempo avrebbe potuto modificare nel tempo senza mai capire realmente.
Alla fine, arrivò a sembrare quasi un atto di gentilezza. L'unico atto sinceramente generoso da parte di mia madre di cui potessi davvero accorgermi: lasciarmi stare.
Il rapporto con la madre, che come potrete immaginare dal distacco delle due, è stato molto travagliato fino a portare (forse colpevole in parte, forse del tutto) Jenny Diski ad un periodo di vuoto, in cui l'autrice, ragazza, bramava solamente una cosa: il nulla.
Questo bisogno, modificatosi con la maturità e con il richiamo alla vita, continua a persistere in Jenny sotto forma di "bianco", colore che la scrittrice desidera vedere sempre intorno a sé.
L'oblio, in senso stretto, era quel che cercavo, ma le lenzuola candide erano una buona approssimazione, o così credevo.
Da questo, l'idea del viaggio in Antartide, un'impresa difficile e ben lontana dalle abitudini sedentarie dell'autrice che, però, la donna si sente di dover fare e che intraprende davvero.
Così, di capitolo in capitolo, andremo avanti leggendo dei ricordi dell'infanzia o delle scoperte di Jenny Diski sulla stessa, affiancati dal viaggio in Antartide.
Il titolo stesso miscela i due temi fondamentali del libro, unendo il pattinaggio, attività che la scrittrice collega alla propria giovinezza e anche al rapporto con la madre, e l'Antartide, meta del viaggio da lei intrapreso.
Vivere con lei, giorno dopo giorno, era come pattinare sul ghiaccio appena formatosi. Andava sempre in pezzi, ma non c'era alternativa, nessun altro posto dove andare.
Entrambe le parti colpiscono.
Quella legata a Jennifer, cioè l'alter ego bambino della narratrice, è molto forte sia per ciò che viene raccontato (si tratta di un'infanzia non semplice, colma di dolore e ben lontana da ciò che viene considerato "normale" accada in una famiglia e in un rapporto madre/figlia), sia per la scelta narrativa dell'autrice, che non sembra nasconderci nulla, pur ammettendo lei stessa che Esistono infiniti modi di dire la verità, inclusa la narrativa, e infiniti modi per non dirla, inclusa la non-fiction.
La parte relativa al viaggio è interessante sia dal punto di vista dell'utilità, perché è colma di informazioni utili ed interessanti a livello geografico, storico, statistico e relativo alla fauna dell'Antartide che includerà, senza dubbio, qualcosa che non conoscevate prima e, anche, l'intelligente punto di vista dell'autrice al riguardo.
Anche se il tema in questo caso è decisamente più leggero non mancherà comunque di profondità, perché le riflessioni della donna toccheranno tasti importanti, sia legati al mondo che a lei stessa.
La parola "carino" risuonò una prima volta, ma poi si moltiplicò come un'eco. I pinguini in effetti sono carini. Ai nostri occhi hanno una dignità ridicola: creature sempre in piedi, affaccendate, ineluttabilmente progettate per vivere sulla terra eppure decide a superare le proprie incapacità. Dondolano frettolose e impacciate sbrigando i loro compiti, si spostano in file ordinate lungo percorsi stabiliti fino al mare, per procacciare cibo per sé e per il partner. Ma ogni tanto si abbandonano, come potremmo fare noi se sapessimo di essere soli e inosservati, e, trovando noioso camminare in discesa, si mettono a pancia in giù, scivolando per la china sdrucciolevole.
D'altro canto, non bisogna immaginare un testo verboso, noioso, pesante e doloroso. Grande pregio di Jenny Diski è, infatti, la capacità di ironizzare su tutto o di rendere leggibile e godibile qualunque cosa, anche l'argomento più serio e grave.
Oltre a questo, il testo sarà interessante per i lettori anche perché cita moltissimi libri (dei quali Moby Dick è il più importante e di cui vengono riportati anche frammenti rilevanti, ma senza anticipazioni), serie tv, film e persino attori.
La cultura è fondamentale ed evidenziata anche per quanto riguarda le differenze tra statunitensi e britannici (e gli stereotipi che i primi pensano dei secondi) e anche a livello religioso. La famiglia dell'autrice, e lei stessa, infatti era ebrea e, per quanto questo aspetto non sia sottolineato e perno fondante del testo, ha comunque contribuito a formare in lei alcune contraddizioni e problematiche di aggregazione con i coetanei.
I miei genitori erano entrambi figli di immigrati ebrei della classe operaia; per se stessi volevano ricchezza e per la propria figlia ricchezza e cultura.
In conclusione, la lettura di Jenny Diski è sempre foriera di forti emozioni, salvaguardate da lei stessa, che sembra dimostrare forza sia per sé che per il lettore.
Raramente mi capita di sentirmi vicina ad una scrittrice come mi succede con lei, tanto che nei suoi confronti mi rendo conto di applicare un diverso sistema anche per quanto riguarda le citazioni: se, infatti, solitamente in quelle che vi riporto inserisco le frasi più forti ed importanti per potervi far capire al meglio ogni libro, con lei mi viene spontaneo omettere quelle maggiormente personali, quasi come se potessi e volessi proteggerla dal mondo esterno.
Ovviamente, è facile trovare sia cose in comune con la scrittrice che cose completamente divergenti in questo testo, e proprio per questo mi stupisce il legame instaurato: deriva da come decide di scrivere più che per quello che racconta. La donna mette completamente al bando il politically correct così come quello che potremmo definire "pudore" e sembra raccontarsi senza alcun artificio.
Per lo stesso motivo credo che sia un testo che tutti dovrebbero leggere e che potrebbero apprezzare, perché non importa affatto se il lettore (donna o uomo, non fa alcuna differenza) abbia vissuto qualcosa di similare, checché ne dica l'autrice stessa è la sensazione di grande realtà ed apertura ad avvolgere la lettura e a farla apprezzare, oltre che alle tantissime informazioni interessanti e disparate. Per questi motivi, sperando che ritroverete riscontro leggendolo, lo consiglio a tutti.
Ultimo aspetto che desidero commentare è la scelta di Fabio Cremonesi di curare la precedente traduzione di F. Bandel Dragone: l'effetto finale è assolutamente omogeneo e, come sempre, curatissimo. Ho apprezzato, ancora una volta, la nota finale del traduttore (che in questo caso è "curatore", però) in cui Cremonesi spiega il perché della sua scelta e delle piccolissime divergenze riscontrate rispetto al testo originale.
Come sempre NN è garanzia di qualità, oltre che della pubblicazione di testi importanti all'estero e da noi inediti o senza ristampa.